Questo è un post strano. Perché si parla di Journey che è qualcosa di veramente difficile da descrivere. Quindi, ecco a voi due impressioni sul gioco: la mia e quella di Paolo Colombo, ex compagno di quel viaggio chiamato liceo. Due punti di vista per un’esperienza da provare. Due punti di vista che però concordano sul “compratevi una PS3 e scaricatelo”.
Quelli di Thatgamecompany ci hanno viziato. Con Flower ci hanno viziato con le emozioni. Un gioco difficile da spiegare, da raccontare. Ma necessario da giocare. Una meraviglia per occhi e per il cuore. E si pensava che non si potesse fare di meglio, superare la poesia dell’esser vento e soffiare sui prati muovendo i singoli fili d’erba e facendo sbocciare i fiori.
E invece sì, è possibile fare di meglio. È possibile anche creare un gioco ancora più difficile e complicato da spiegare, da raccontare. Un gioco che ti esalta al punto che devi dirlo, devi raccontarlo a qualcuno, anzi, no, a chiunque. E chiunque, probabilmente, inarcherà il sopracciglio dandoti del pazzo, non capendoti.
Perché Journey è uno di quei giochi che ti prende dal primo secondo. Ti lascia a bocca aperta quando incontri per la prima volta il tuo alter-ego digitale tutto solo in quella distesa di sabbia rovente. Ti lascia imbambolato a fissare con stupore la cinematica, senza renderti conto che no, non è il gioco, ma sei tu che stai muovendo la camera con i sensori di movimento del pad. Ti inumidisce gli occhi al primo accenno di colonna sonora. Ti libera la mente e le lascia costruire la tua storia.
Perché Journey è il viaggio verso l’ignoto, è l’avventura, è la scoperta di un mondo nuovo. È fare amicizia con un estraneo, condividere parte del cammino e non poterci parlare, in alcun modo. Ci puoi camminare attorno, puoi attirare la sua attenzione, ma non puoi fare nient’altro. Nient’altro se non diventare compagni di viaggio, di avventura, di scoperta.
Journey è solo viaggio, avventura, scoperta. Niente mostri da ammazzare, enigmi cervellotici da risolvere o sfide di abilità. Niente dialoghi, parole, sottotitoli, spiegazioni.
Il pad. Due tasti, una levetta analogica, i sensori di movimento. E poi basta. Solo tanta tanta tanta, troppa emozione.
È un’indescrivibile opera d’arte.
Lorenzo Gerli
Nel 2006 ho iniziato a giocare a World Of Warcraft, e tuttora mi ci diletto con buoni risultati. Ricordo che, ai tempi in cui io e il gruppo di amici con cui giocavo eravamo una massa di nabbi senza speranza, un gentile ragazzo inglese di cui ora mi sfugge il nome, molto più esperto di noi, si prese a cuore la nostra educazione e la nostra crescita all’interno del gioco. Di fronte alla nostra smania di arrivare al traguardo che era, allora, il livello 60, soleva dirci con aria sorniona “Remember kids, it’s all about the journey”.
I ragazzi giù alla Thatgamecompany sembrano aver preso questa storia molto sul serio. Con i loro precedenti titoli (Flower e Fl0w) hanno attualizzato e ribadito il concetto di videogioco come opera fine a se stessa, in grado di suscitare emozioni con la pura forza delle immagini e dei suoni, staccandosi dai normali canoni videoludici. Con Journey vanno, se possibile, oltre: non servono tutorial, non servono dialoghi, non serve una storia, non servono un passato e un futuro, non serve una minaccia da cui liberare il mondo, non serve NIENTE, se non il viaggio. Un anonimo protagonista senza voce e fisionomie univoche squadra, in un paesaggio desertico costellato di strane rovine, una enorme montagna in lontananza, dalla cui sommità parte un raggio di luce. Nessuno ce lo dice, niente ce lo fa capire, ma lo sappiamo fin da subito che è li che dovremo arrivare. Ed eccoci nel deserto, splendidamente animato come tutte le altre ambientazioni del gioco: il semplicissimo tutorial ci spiega in quattro parole che non potremo fare molto altro a parte camminare e, una volta raccolti strani pezzi di stoffa magicamente svolazzanti, saltare. La bocca intanto rimane sempre aperta, persa nell’arido paesaggio e i suoi dintorni, che potremo liberamente scegliere se esplorare o meno. L’orecchio è rapito dallo splendido lavoro di Austin Wintory, la cui colonna sonora esprime magistralmente i concetti cardine dell’esperienza di gioco e sottolinea ogni variazione con un adeguato contrappunto.
E mentre ci dirigiamo lesti verso la montagna o vaghiamo a zonzo in cerca di qualche informazione in più, ecco in lontananza apparire un altro viaggiatore, del tutto identico a noi nell’aspetto. Eccoci alla vera genialata, eccoci al multiplayer: niente chat, niente emoticon, niente azioni speciali da eseguire in coppia, niente di niente nemmeno qui, è un incontro casuale. Potremo decidere di ignorare il nuovo arrivato, o di fare un pezzo di strada insieme a lui. Ieri sera stavo giocando e mi sono giusto imbattuto in un altro viaggiatore: per i primi 40 secondi ci siamo volutamente ignorati, studiandoci a vicenda; poi il mio non/compagno ha trovato qualcosa di interessante, e ha premuto il pulsante generico di interazione con l’ambiente che, in mancanza d’altro, lancia una sorta di “grido”, unico suono che potremo emettere. Mi sono avvicinato, incuriosito, per scoprire che si trattava di un potenziamento per il salto… che questa persona ha ritenuto opportuno condividere con me. Abbiamo fatto un bel po’ di strada assieme, da quel punto: se uno si attardava l’altro lo aspettava pazientemente, se uno deviava dal presunto percorso principale, l’altro lo seguiva, si comunicava con un linguaggio creato da noi stessi fatto di saltelli, di segnali sonori, di rapide giravolte. Si SENTIVA, che l’uno teneva all’altro, abbiamo condiviso un pezzo di viaggio.
Non ho molto altro da dire, anche perchè sarebbe inutile dirlo, è una cosa da provare. Journey rende in un modo assolutamente spettacolare il trito e ritrito concetto che “il viaggio stesso è più importante della meta”: per una volta, una fottuta volta, è vero sul serio. Non si può spiegare questo qualcosa che il titolo ha in quantità enormi… ha quantità enormi di qualcosa di diverso per ognuna delle persone che ci giocano, sarà il nostro subconscio a decidere cosa è che journey ha in quantità enorme e a riversarcelo tutto addosso al punto da farci spalancare la bocca o inumidire gli occhi. Ho la tremenda sensazione che passerò il resto della vita a tentare, fallendo, di spiegare questo gioco a quelli che giocano solo a Killzone.
Certo, journey è tecnicamente un videogioco. Anche le lasagne di vostra madre sono tecnicamente strati di pasta di grano duro alternati a ragù di carne e besciamella, ciò non toglie che vi facciano provare qualcosa, qualcosa nel profondo, che nessuna altra lasagna di questa terra potrà mai farvi provare.
Un sentito grazie, infine, al vecchio Gerli per avermi “featurato” sul suo blog.
Paolo Colombo
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